Conoscere Rossetti

3 dicembre 2016  |  di Piero Careddu

FACCIA A FACCIA CON UNO DEGLI AFFABULATORI DI VINO CHE PREFERISCO.

Il mondo del vino scritto, che sia web o carta, è sempre più la quintessenza dell’autoreferenzialità. Oltre ad essere tremendamente noioso, scolastico, spesso cinico e totalmente insensibile a certe tematiche che dovrebbero essere il pane quotidiano di ristoratori, sommeliers, giornalisti e/o scrittori della materia come, ad esempio, la salute di chi il vino lo deve bere. Fa un certo effetto, e anche piacere, imbattersi in un personaggio come Gianluca Rossetti, un sommelier che ha spazi di espressione su Intravino e sul sito istituzionale dell’A.I.S. Gianluca mi ha colpito da subito per lo stile disincantato, a volte pungente, e per un’ironia che costringe il lettore avvezzo agli accademismi imperanti a porsi il problema che, alla fine della fiera, il vino è qualcosa di meno solenne e drammatico di quello che provano a farci credere. E’ nato 44 anni fa in Germania da genitori meridionali emigrati . Oggi vive in Sardegna dal 1998, felicemente sposato con una sarda e  lavora per la Pubblica Amministrazione. E’ sommelier A.I.S.dal 2012. Quella che segue è una nota di assaggio presa a caso fra le sue pagine: “No, ferma le macchine, ferma tutto. Come sempre sbaglio ma in questa edizione lo trovo di una bontà unica: appena più lieve il colore rispetto ai millesimi precedenti. Naso e papille in festa per godimento prima annunciato e poi concesso. Senza pudore, senza vergogna e, soprattutto, senza limiti. Profuma di granata, succo di ribes e mirtillo (quello che mi preparava la Frau Hoffman quando ero in Germania, un millennio fa). Gelatine ai frutti rossi, fiori di sambuco, gomma americana. Ancora tracce vinose. In bocca salta come un grillo, con una coerenza gusto-olfattiva seconda solo al piacere che dona. La corposa dotazione di durezze me lo fa amare allo spasimo. Ma non crediate che si tratti di un vino scarno o arruffato. Quanto ad attributi fa concorrenza ad alcuni rossi. E per questo evitate di servirlo freddo. Però, ribadisco, in versione 2015 lo trovo in stato di grazia: dritto, ficcante. Ergo più nelle mie corde. Considerando che per me era un rosato da favola già prima (per alcuni il migliore in Italia) immaginate cosa possa essere diventato adesso. Per festeggiare me la canto e me la suono. Al secondo bicchiere mi paio perfino ascoltabile. A voi ne serviranno un bel po’ in più” . Ormai per me, che come lui mi diletto a descrivere i vini che amo, leggerlo è quasi un esigenza e aspetto sempre le nuove righe con una certa emozione. L’ho voluto conoscere e presentarvelo in questa intervista che mi ha gentilmente concesso:

Raccontaci intanto chi sei, cosa fai nella vita oltre ad occuparti di vino

A parte il vino credo rimanga poco. Non tanto per il tempo che gli dedico, seppure da semplice appassionato, ma per lo spazio che occupa a dispetto di ogni mia resistenza. E a discapito di altri interessi che pure ritenevo irrinunciabili. Quali un sano, contemplativo, impareggiabile ozio cui in passato consacravo buona parte del mio tempo libero. Poi, sai, anche il tempo libero, le stesse frequentazioni, tendono ad adattarsi per assecondare gli stati d’animo del momento. In genere e con le dovute eccezioni, in mancanza di un richiamo enoico preferisco fare vita ritirata. Certo, se mi dici che la PFM sta organizzando un concerto nel raggio di trecento chilometri, può essere che ci vada a piedi. Ma questa è un’altra storia.

Ho notato il tuo grande interesse per la musica. Non so se hai fatto caso: Taribari ospita da anni una rubrica, Canzoni Ubriache, creata e curata dal nostro Antonio Canu che pratica l’abbinamento tra vino e musica.

Beh, si. La musica, le chitarre, gli amplificatori a valvole. Sono una specie di catalogo scombinato di liuteria moderna. Conosco ogni minimo componente di questi arnesi e alcuni li chiamo pure per nome. Ma qui si fermano le mie competenze. Ho smesso di suonare sul serio da molti anni. I risvegli nel cuore della notte per il bisogno improvviso di mettere sulle corde un’idea, risalgono ad altre ere geologiche. Comunque tra i più bei ricordi che conservo. Oggi preferisco ascoltare. Non solo la musica ma anche la reazione alla musica. Un paio di giorni fa il mio primogenito, che ha cinque anni, ha mollato di corsa i giochi che lo tenevano impegnato non appena Thelonious Monk ha dato l’attacco di “Round about midnight”. È durato solo qualche secondo l’incanto. Ma mi è parsa l’ennesima conferma del potere evocativo, sciamanico dei suoni, della musica. Un sommovimento primordiale che solo dopo si fa cultura e arte. Insomma, rispetto al vino, la musica è l’altra metà del mio universo. Inevitabile che si intreccino le sinapsi. Un brano evoca una bottiglia e viceversa: mi capita spesso. Detto questo, visto che mi ci hai fatto pensare, andrò a rileggere tutto quanto avete pubblicato in merito su Taribari.

Come è nata la voglia di scrivere di vino?

Come accade con le faccende importanti, per caso. Inizialmente era il bisogno di lasciare traccia. Ho sempre avuto una pessima memoria per cui occorreva fissare le impressioni per paura che potessero svanire. Questa necessità “clinica” si è tradotta in un processo più organizzato quando ho iniziato a pubblicare sul sito AIS Sardegna e a collaborare alla redazione della Guida Vitae. Palestra importantissima: mi ha insegnato la disciplina e una certa idea di rigore, anche formale. Documentarsi, esplorare, rimanere curiosi. Questi gli imperativi. Ma, come sosteneva Miles Davis, imparate le regole, è bello anche dimenticarle: quindi ho pensato a uno spazio anarchico in rete dove, nove volte su dieci, se scrivo è per parlare di vino. E per farlo tendo a giocare con le parole. Ai limiti della forzatura, dell’eccesso anche. Per rispondere alla tua domanda: forse la passione l’ho scoperta durante il viaggio. E adesso, potendo, scriverei pure sui muri. Grazie al cielo c’è Intravino. Francamente ancora sono stordito. Ho sempre seguito il blog da appassionato. Ritrovarci il mio nome sopra è sensazione che fatico a contenere

Pensi che il mondo della sommellerie abbia bisogno di dare segnali di cambiamento?

Sono sommelier da pochi anni: non è agevole risponderti. Penso che finirò inevitabilmente per argomentare guardandomi l’ombelico. Ma non mi sottraggo alla domanda. Quello che apprezzo nel panorama attuale è il fermento, l’interesse che poi, volendo, si incanala nell’alveo istituzionale di questa o quella associazione e, ritengo, non per spirito di bandiera ma per il bisogno di conoscenza. Leggere e ascoltare di vitigni, terroir, metodi produttivi e tecniche di degustazione o abbinamento, credo non faccia male a nessuno. Pur nelle differenze di impostazione continua a essere un compito importantissimo. Almeno per me lo è stato. Ha fatto da starter. La vita associativa, poi, crea occasioni di incontro che altrimenti non ci sarebbero. E alcuni di questi incontri finiscono per segnarti davvero. Ne nascono sintonie profonde. Altro elemento che apprezzo è il dibattito interno: l’evoluzione delle regole sull’abbinamento cibo-vino, ad esempio, di fronte alle nuove sfide di preparazioni che hanno superato qualsiasi barriera e distanza. Oppure la nuova (per alcuni antica) frontiera: quello dei vini “naturali”. Luogo nel quale anche i parametri classici dell’esame visivo possono essere sovvertiti. Detto questo, poco mi appassiona il dibattito identitario, le polemiche sul pedigree e la presunta superiorità di un metodo su un altro. Alle volte leggo esternazioni improbabili che raffrontano grandezze poste semplicemente su piani d’interpretazione differenti. A me che il corso XY sia più rinomato all’estero perché approfondisce meglio i vini del Nuovo Mondo interessa quanto il dibattito sul sesso degli angeli. Prima di sfasciarmi le ossa sui lieu dit della Barossa Valley vorrei poter dire di sapere qualcosa sulla vigna del mio vicino. Ma non prenderla come una battuta di campanile. Davanti a un rkatsiteli georgiano allevato in anfora, potresti sentirmi ululare. È solo che, veramente, non mi interessano le baruffe. Altra notazione critica: ritengo ci vorrebbe maggiore dinamismo e attenzione verso la nuova linea del fronte, la terza dimensione. Internet, insomma. Qui mi pare che ancora ci siano margini per migliorare forma e contenuti. Sul sito Ais Sardegna con amici e colleghi stiamo lavorando tanto in questa direzione. Con esiti che lascio valutare agli altri. Ma che, ti assicuro, non sempre trovi in giro. In casi estremi, la deriva cazzeggiatoria, ammantata di understatement, azzera i contenuti. Basta un clic. E ti si apriranno gli occhi su un mondo che avresti preferito continuare ad ignorare.

Noi di Taribari siamo dei sommelier ambientalisti e crediamo che il vino debba essere fatto dall’uva e che il ruolo dell’enologo debba essere di “accompagnatore” degli acini dalla pianta alla bottiglia, riducendo al minimo i suoi interventi. Come ti posizioni su questo scottante argomento della chimica in vigna e delle manipolazioni in cantina?

Domanda complessa. E la risposta non è facile. Anzitutto perché si pone al centro di un dibattito che è vivacissimo. La ragione alla base della tua riflessione, che è un manifesto, non è la mia. Ma gli esiti non sono dissimili. Intendo dire che non è stata la questione ambientale, non solo quella almeno, a farmi avvicinare a un certo modo di fare vino, figlio della poetica della cura più che del saper fare di un vigneron. Il motivo per me è più terreno: trovo che questi vini, frutto di poche, misurate attenzioni, si muovano diversamente, parlino un linguaggio differente in cui distinguo nitidamente il suono e il significato di ogni parola. Ovviamente non tutti e non sempre. Su questo tema un mio amico una volta mi disse: la via più breve in genere è la migliore se vuoi arrivare da qualche parte. I vini vitali, rispettosi della poetica della cura forse è più probabile che la percorrano. Io non so se è vero. Anche perché sono un assaggiatore seriale, come tale incapace di governare me stesso. Ma sono soprattutto un assaggiatore esordiente: la distanza tra quanto conosco e quanto vorrei sapere è troppo grande e la curiosità di proseguire nell’esplorazione mi impedisce, adesso, di pormi limiti. Ma credo che con lentezza, eppure inesorabilmente, diventerà una questione capitale sulla quale finirò per prendere posizione.

Il tuo vino della vita?

Il primo che ho assaggiato. Evidentemente ha segnato la strada.

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