Urthel: l’ertelino ubriacone delle Fiandre

6 marzo 2015  |  di Fabio Piredda

Urthel. Italianizzando il termine, “ertelino”. E’ un simpatico personaggio, simile a uno gnomo, protagonista di diverse fiabe della cultura fiamminga. La brava e bella birraia Hildegard Van Ostaden è a questo personaggio che si è ispirata quando ha deciso di aprire un birrificio. Facciamo un passo indietro. Più precisamente al 2000. Hildegard, laureata a Gent in ingegneria industriale e specializzata in operazioni inerenti ai birrifici, arriva da alcuni anni di insegnamento in cui si è anche occupata della supervisione a diversi impianti birrai. A Ruiselede, città in cui vive con suo marito Bas, esperto di marketing e appassionato fumettista, decide di aprire un brand birraio. Lo chiama “Brouwerij De Leyerth” e fa della figura dell’ertelino, ridisegnata da suo marito in funzione delle etichette, l’icona del suo progetto. Essendo sprovvista di impianto e non avendo la possibilità di acquistarne uno, decide di appoggiarsi alla Brouwerij Van Steenberge, alla quale commissiona le sue ricette elaborate negli anni, e lancia sul mercato la gamma “Urthel”. I risultati sono sorprendenti. Lo sono tanto da obbligare Hildegard a ripensare le sue iniziali ricette, ampliare la gamma per soddisfare le richieste dei clienti, e, nel 2006, a trasferirsi in Olanda per sfruttare gli impianti della Brouwerij De Koningshoeven, produttrice della La Trappe, prima di tornare a Ruiselede (perciò nuovamente in Belgio) nel 2012. La creatività di Hildegard e la sua attitudine allo studio dell’evoluzione del mercato birraio mondiale, la portano a visitare gli U.S.A. per prendere visione delle nuove tendenze ai luppoli del Nuovo Mondo. Comincia a scrivere per “Beer Passion Magazine” e torna in Belgio con l’idea di sviluppare una ricetta che segua il cammino tracciato dalla Achouffe, con la “Chouffe Houblon”, ovvero quella di una tripel vigorosamente luppolata. Nasce così la “Urthel Hop It”, una delle birre più moderne di un mercato tradizionalmente conservatore come quello belga.

L’etichetta verde è molto simpatica e manifesta, pur nella sua relativa semplicità, un appeal da non sottovalutare rispetto alla maggior parte delle etichette belghe, generalmente austere e dalla scarsa propensione ai colori vivaci; raffigura l’ertelino con la barba lunga, il naso grosso e un boccale di birra in mano. Versare il contenuto si dimostra cosa da fare con molta attenzione, perché è tale la formazione di schiuma da coprire l’intero calice in un amen. Colore giallo carico, con bei riflessi aranciati. La schiuma è di un bianco non del tutto candido come la polpa della banana; è decisamente aderente e di buona persistenza. Il naso rivela un “armonioso contrasto”, quello che contrappone la piacevole velatura zuccherina di cereali e toffee alla presenza più spigolosa dei fiori di luppolo freschi. Il tutto racchiuso in un contesto etilico e speziato che ricorda il “Cointreau”, i rizomi di rabarbaro e la china; con una punta asprignola di mela cotogna. In bocca un gran corpo e una discreta carbonatazione. L’alcol c’è (9,5% abv), e si manifesta nel modo più elegante, attenuando inizialmente sia la percezione del dolce che quella dell’amaro. Ma una volta “colorato” il palato con il primo sorso, si pone quasi come “spettro di esaltazione” che restituisce, dal sorso successivo, il ruolo di protagonista al luppolo, in tutta la sua forza aromatica e amaricante. Frutta gialla, uva sultanina, coriandolo e mandorla trovano il loro spazio nel ricco ventaglio delle percezioni sensoriali, con un amaro “terroso” a chiudere la beva sempre ben coadiuvato dal calore etilico. Una temperatura di servizio intorno ai 12°C e un balloon/luttich sono a mio avviso congeniali al consumo. Vedrei benissimo la Hop It in compagnia di una ricca polenta con funghi e salsiccia, o con altri piatti invernali del nord Italia come la zuppa di ceci e castagne.

Difficile sintetizzare in poche parole ciò che esprime questa birra. Racconta di un Belgio che cambia. Una terra di enorme tradizione birraia monastica che quasi, se mi è concessa la digressione, si ribella alla Chiesa intesa come vincolo, anche birraio. Ecco si. Se dovessi racchiudere questo enorme prodotto brassicolo in un singolo slogan, direi che questa è la birra più anarchica che abbia mai assaggiato. Perché non solo se ne frega del contesto birraio e culturale in cui prende vita, ma al contrario, lo disconosce e ne prende palesemente le distanze. Arriva concettualmente da lontano ma, grazie a una donna belgissima, si radica nel “classico Belgio” e lo contamina di quel meraviglioso nuovo modo di concepire la birra che è proprio del paradiso luppolato statunitense, sebbene i luppoli in ricetta siano rigorosamente europei. Birre come la Urthel Hop It elevano ulteriormente il già autorevole blasone birraio belga. Lo portano laddove secondo me dovrebbe stare, al passo coi tempi, aperto al cambiamento, ma con insito il vantaggio di un passato che tutti gli altri nemmeno sognerebbero. Il fatto che un pezzo brassicolo di sì tale magnitudo sia nato dalla creatività di una donna è un dato particolarmente piacevole, anche perché non fa altro che confermare che nessuno può fermare la potenza del cambiamento, in particolare nel mondo della birra.

E allora i nostalgici si arrendano… All’ertelino.

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