THOMAS HARDY’S ALE – ed. 1997!!!

4 novembre 2014  |  di Fabio Piredda

SALUTIAMO CON AFFETTO L’ESORDIO DI FABIO PIREDDA SU TARIBARI CHE INIZIA  LA COLLABORAZIONE CON L’ASSAGGIO DI UNA BIRRA A DIR POCO PREZIOSA!

Inutile nascondere che è con grande orgoglio e un pizzico di emozione che il sottoscritto comincia questa “irripetibile” recensione. Si, perché quella in questione, stappata insieme a due amici birrofili selezionati appositamente per la condivisione di questo epico momento, non era una birra qualsiasi che potrei avere la possibilità di bere ancora, bensì una Thomas Hardy’s Ale del 1997!!! Comincio con un sentito ringraziamento. E’ infatti merito dell’amico Costantino Fadda dell’Università di Sassari se oggi sono qui a parlarvi di questa bottiglietta. L’aveva scovata aprendo uno sportello in un dimenticatoio a forma di vecchia credenza in cui un suo parente teneva alcune bottigliette acquistate qua e là nei suoi viaggi. Come molti di voi sapranno la Thomas Hardy’s Ale, considerata nell’universo delle bollicine “il cognac della birra”, è una delle etichette più prestigiose al mondo. Uscita di produzione nel 2007 quando la birreria “O’Hanlon”, ultima a detenerne i diritti alla produzione, rinunciò al marchio per gli eccessivi costi di produzione, le bottigliette di “T.H.A.” rimaste in circolazione sono esemplari da tenere stretti e a tutti i costi. Ma andiamo per ordine… Questa birra venne brassata per la prima volta nel 1968 per commemorare il 40° anniversario della morte di Thomas Hardy, celebre poeta e scrittore di Dorchester considerato da molti uno dei più importanti intellettuali inglesi nell’era di passaggio fra il periodo vittoriano e l’allora imminente modernismo novecentesco. L’idea di dedicare a Thomas Hardy una birra fu del primissimo detentore dei diritti sul marchio: l’importatore George Saxon. Saxon era un grande appassionato di letteratura nonché un grande conoscitore di Hardy. Si ispirò alla novella “The trumpet major”, in cui Hardy fece riferimento a una birra forte di Dorchester definendola “the most beautiful colour an artist could possibly desire, as bright as an autumn sunset” (trad. “il più bel colore che un artista possa desiderare, luminoso come un tramonto d’autunno”). La “Eldridge Pope Brewery” di Dorchester provò così a riprodurre una birra che presentasse le caratteristiche descritte da Hardy. La produsse in un formato da 33cl, con le bottigliette numerate una a una. Impreziosì il packaging con un collarino color oro raffigurante il profilo di Thomas Hardy e diede inizio a una specie di leggenda birraia senza tempo. La birra, una barley wine liquorosa, calda, fruttata, perfetta per accompagnare a piccoli sorsi dei tocchetti di formaggio erborinato con confettura di mele, oppure per completare la lettura di un buon libro o l’ascolto di un vecchio disco di Bill Withers. Insomma, un capolavoro brassicolo invernale “da divano”. La Eldridge Pope a causa della crescita dei costi di produzione decise, seppur con immenso dispiacere, di rinunciare alla Thomas Hardy’s Ale e smise così di produrla nel 1999. Gli appassionati cominciarono a conservare le bottigliette che già possedevano forti anche dell’immensa evoluzione in bottiglia di questa birra, ma dovettero attendere ben 4 anni prima che un birrificio si facesse avanti nel tentativo di riesumare l’amata T.H.A. Ecco che nel 2003 la birreria O’Hanlon, inglese di ubicazione ma irlandese di origine, acquistò i diritti di produzione e ripresentò la Thomas Hardy’s Ale modificandone il formato, e cioè portandola dal 33cl al 25cl. Nel 2008 le difficoltà finanziarie costrinsero la O’Hanlon a rinunciare e la produzione venne nuovamente interrotta all’inizio dello stesso anno. Da quel momento in poi, prima che di recente lo facessero gli italiani fratelli Vecchiato, nessun gruppo birraio ha ridato vita alla produzione perciò ogni singola bottiglietta rimasta in circolazione rappresenta una piccola grande chicca per appassionati, ovviamente in attesa che succeda qualcosa…

Veniamo alla nostra bottiglietta di Thomas Hardy’s Ale 1997. L’aspetto estetico dell’etichetta e del vetro mi procura le prime ondate di commozione, una specie di malinconia al solo pensiero che ciò che sto per bere non lo vedrò probabilmente mai più nella mia esistenza. Il tappo a corona, neanche a dirlo, è completamente arrugginito. Il profilo di Thomas Hardy in bianco e nero al centro dell’etichetta gialla schiarita dal tempo esprime lo stesso fascino e la stessa rigorosità di una foto su una banconota sgualcita degli anni ‘60. Nella parte bassa dell’etichetta un font corsivo “molto inglese” recita “In ‘The Trumpet-Major’ Hardy wrote of Dorchester’s strong beer ‘it was of the most beautiful colour that the eye o fan artist in beer could desire; full in body, yet brisk as a volcano; piquant, yet without a twang; luminous a san autumn sunset;…”. Nel retro dell’etichetta, fra le altre cose, il numero del pezzo e del lotto: 1665-03. Insieme agli amici Alessio e Stefano, anch’essi piuttosto emozionati, la stappiamo. Un rumore sordo quasi impercettibile lascia intendere che la carbonatazione sia solo un lontano ricordo. La versiamo nel calice, un balloon scelto per l’occasione. Nemmeno una bollicina. La birra è completamente ferma. Di un color mogano a dir poco sublime, impreziosito da riflessi rossicci che sanno di antico. Un’opalescenza abbastanza lieve ci da la possibilità di notare piccoli ventagli di lievito che per 17 lunghi anni hanno contribuito alla conservazione in bottiglia. Con la curiosità di un bambino davanti ai regali di Natale ecco che avvicino il calice al naso. Un’ondata di frutta etilica mi investe quasi come se si fosse davanti a un passito di blasone sconfinato. Caldi toni etilici accompagnano note di frutta che ricordano tantissimo i datteri, il pudding e una fumante torta di mele; lasciando spazio a una elegante ventata speziata di cannella e chiodi di garofano. In bocca un corpo tutto sommato abbastanza esile in rapporto alla portata etilica è accompagnato – come è ovvio che fosse dopo 17 anni in bottiglia – dalla totale assenza di carbonatazione. Un vorticoso susseguirsi di dolci toni di miele di castagna, marron glacé, uva sultanina, prugna, mela cotta e mosto cotto abbraccia una vena dolce-sapida che ricorda davvero tantissimo la salsa di soia. Il tutto in un caldissimo contesto dolce-fruttato-etilico-salato che porta la mia fantasia a immaginarmi seduto in una piccola locanda ubicata a ridosso di una scogliera sull’Atlantico, a sorseggiare un calice di Madeira mentre la mia pelle e le mie ossa percepiscono tutta la fatica con cui una vecchia stufa a legna cerca invano di combattere il freddo umido che penetra dagli spifferi di vecchi infissi logorati dal tempo e dalla salsedine… In definitiva, molto più che l’assaggio di una birra. Una esperienza sensoriale del tutto speciale, in cui la birra racconta di sé, del tempo che ha trascorso in bottiglia ignara degli eventi esterni che nel frattempo hanno cambiato tanto di quello che c’è fuori e hanno elevato, esaltato, sublimato ciò che c’è dentro. Come dicevo, tutto molto affascinante e purtroppo, irripetibile. Chissà se un lungimirante e illuminato intellettuale come Thomas Hardy avrebbe mai potuto immaginare la leggendaria grandezza birraia a cui pochi suoi versi avrebbero dato vita…

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