Quattro chiacchiere con Mike Murphy

15 marzo 2016  |  di Fabio Piredda

Mike Murphy è un birraio americano fra i più noti nel panorama brassicolo mondiale, ora in forze alla “Lervig Aktiebryggeri” di Stavanger (Norvegia). La sua simpatia e la sua immensa disponibilità hanno reso possibile questa bella intervista in cui Mike si racconta dai tempi dell’homebrewing a quelli della fama internazionale, evoca i prossimi cambiamenti nel mutevole mondo delle “craft beers” e soprattutto ci regala una lucidissima fotografia circa l’attuale momento che il mercato sta attraversando anche rispetto alle parallele dinamiche industriali. Da parte mia e di tutto lo staff di Taribari va un grosso ringraziamento a Sandro Naitana per la traduzione delle esaustive risposte di Mike. Buona lettura…

  • Ciao Mike, prima di tutto parlerei di te e della tua storia se ti fa piacere… So che sei nato a Philadelphia. Che prospettive avevi da giovane? Pensavi già che la tua vita sarebbe stata legata in qualche modo al mondo della birra?

Con tutto il rispetto per la birra… (in realtà sono nato a Washington DC e cresciuto nei dintorni di Philadelphia), in gioventù non avevamo altro da bere che non fossero le lager commerciali, mio padre beveva Rolling Rock ad esempio… La mia prima birra è stata una Coors Light, ma anche quando non sapevo altro sulla birra se non il fatto che mi potevo sbronzare con essa, ogni volta che i miei amici più grandi andavano a comprarmela (avevo più o meno 16 anni) (in USA non si possono acquistare alcoolici prima dei 21 anni di età – ndt), io chiedevo sempre birre come la Coors Extra Gold perchè la roba leggera, NO, proprio no… E poi volevo sul serio produrre qualcosa con le mie mani, qualcosa che potesse servire a sbronzarmi; solo dopo qualche tempo mi son reso conto di ciò che i luppoli potevano rappresentare per una birra, e questo accadeva nel lontano 1991.

  • Restando agli U.S.A., che momento è per il movimento birraio statunitense? Come lo vedi dall’esterno ora che vivi in Europa?

Quando inizialmente mi trasferii in Italia nel 1999, mi resi conto che Regno Unito, Belgio e Germania sono completamente immerse nella cultura birraria e per me questo è stato come aprire gli occhi: in quel momento quelle birre per me erano le birre artigianali: Real Ales, trappiste belghe e rauchbier, per nominarne alcune… ma nel 2001 iniziavo a sentire la mancanza dei luppoli. Quando arrivai in Europa, il mercato della birra artigianale negli USA aveva appena iniziato ad imitare la tradizione europea e nel contempo ad esagerare con le luppolature nelle IPA. Io credo che quello fosse solo l’inizio. Siamo passati dagli 800 ai 4000  birrifici artigianali, dall’1% al 15% di fetta di mercato… è un’industria da 30 miliardi di dollari lì. L’Europa sta rincorrendo velocemente, ma riusciranno i più grossi marchi craft USA a raggiungere una posizione di vantaggio rispetto agli omologhi europei prima che il mercato del vecchio continente raggiunga il livello americano? Vedo in Europa molto interesse verso i grossi nomi della birra artigianale USA (principalmente perchè sono quelli più attesi, e da lungo tempo, dai beer nerds) e penso che averli sia una grande cosa, ma cerchiamo di rimanere concentrati su ciò che la birra artigianale dovrebbe essere riguardo chi la consuma, i mercati locali e la freschezza. Sta succedendo in UK, ad esempio… il mercato della birra artigianale sta esplodendo come in nessun’altra nazione europea adesso. Non vedo l’ora accada anche in Germania. Ma io sono sempre stato nel lato pionieristico della birra artigianale. Ora la Germania è così agli albori di questo movimento, che trovo la situazione estremamente avvincente. L’Italia si è spinta molto oltre da quando ero lì e facevo birra, è cambiata completamente la cultura: birra… a chi piaceva la birra vent’anni fa ? Andava bene con la pizza e tutto finiva lì. Guarda adesso!

  • Cosa mi dici dell’Italia? Per quanto tempo hai vissuto nel nostro paese?

Mi sono trasferito lì alla fine del 1999, poi mi son spostato in Danimarca nel 2005. In quel periodo ho apprezzato davvero le mie esperienze italiane. Tutto: la gente, il territorio, il mare ed il cibo. La scena birraria era ed è tuttora composta da grandi persone. Amici e birrai. Abbiamo lottato tutti per far sì che la birra venisse presa più seriamente, credo quello sia stato un punto di svolta nella mia vita. Spero un giorno di ritornare a vivere in Italia.

  • Cosa hai avuto dall’Italia a livello umano e professionale?

Quando stavo negli USA ero solo un birraio casalingo, decisi di brassare una Pale Ale perchè mi piacevano tanto ed erano impossibili da trovare: negli USA c’erano solo IPA o Pilsner. Doveva funzionare… ma per me, forse ero troppo in anticipo o magari non avevo un modello di business adeguato. Sarebbe divertente scoprire che cosa sarebbe accaduto se solo fossi riuscito a rimanere uno o due anni in più a Roma, prima di mollare e trasferirmi in Danimarca.

Dal punto di vista umano, beh, ho imparato molto su me stesso e sugli altri, non avevo mai avuto così tanto affetto e amici come in Italia, e anche dopo l’esperienza italiana, mi manca sempre il livello di amicizia e i bei tempi che ho passato lì. L’Italia è davvero un grande paese in questo senso. Le amicizie che ho da 15 anni lì, sono amicizie che dureranno una vita.

  • Come è nata la tua avventura nella Lervig Aktiebryggeri? Come diavolo sei finito in Norvegia???

Come ho detto, ho vissuto in Danimarca per 5 anni, il birrificio per il quale lavoravo allora fu acquisito da un grosso gruppo industriale birrario e io non mi divertivo più lì, ma mi piace vivere in Scandinavia. Ha i suoi vantaggi. Ho cercato di dare una svolta alla mia carriera, ma in Danimarca non c’era molto all’orizzonte. Mi piace andare in posti nei quali divento un catalizzatore (“fattore influenzante”), non ho mai voluto lavorare per un birrificio e seguire le ricette altrui… non è per questo che sono diventato un birraio. Ho trovato un grosso potenziale nell’impianto di Lervig, non avevo mai sentito il nome prima, ma sapevo che se fossi riuscito a sfruttare la capacità di quell’impianto, potenzialmente avrei potuto fare grandi cose.

  • Descrivimi in breve la realtà in cui vivi adesso, quella norvegese. Come ti trovi con la mentalità locale? E’ stato difficile per te adattarti alla loro cultura, al loro cibo, al loro clima?

Adesso vivo a Stavanger, Norvegia, non ho nessun problema ad adattarmi, sono bravo in questo… ma dopo aver vissuto negli Stati Uniti ed in Italia, è molto difficile accettare la cultura gastronomica qui (Norvegia). C’è molta strada da fare prima che raggiunga un livello accettabile a livello mondiale… i supermercati sono, per dirla con un eufemismo, deprimenti. Il clima è freddo, lunghi inverni bui, ma riesco a sopportarli meglio del caldo, quindi non è un problema. Qui si dice che non esiste il cattivo tempo, esiste solo il cattivo abbigliamento.

  • La comunità di Stavanger come vive il successo di Lervig? In maniera distaccata o al contrario lo ritiene un piccolo orgoglio cittadino?

Stavanger non è molto diversa dal resto del mondo, chi ci vive è orgoglioso di Lervig, ma come marchio ci manca il pieno supporto che ci servirebbe per salire di livello. Non darei la colpa ai consumatori quanto agli interessi economici che stanno dietro di loro (supermarket, bar, hotel etc.). In Norvegia c’è il pallino dei monopoli, si pensa ancora che avere un unico attore in ciascuna industria sia una gran cosa. Ma i tempi stanno cambiando. La birra qui potrebbe essere la prova del nove per il cambiamento della cultura gastronomica che spiana sempre la strada ai cambiamenti culturali e sociali.

  • Sei considerato nel panorama birraio uno dei più importanti birrai al mondo. Secondo il tuo parere in un mercato globalizzato in cui tutti i birrai possono usufruire di qualsiasi tipo di materie prime, cosa fa davvero la differenza fra un buon birraio e un fuoriclasse?

Innanzi tutto grazie per il complimento, io non penso mai a me stesso in questi termini, è solo che faccio questo lavoro da ormai tanto tempo. Ho incontrato diversi giovani birrai con parecchio talento e capacità. Credo che il fatto che io non abbia mai mollato, e che faccio tutto questo da molto tempo prima che fosse “figo” farlo, mi dia una sorta di status. E’ qualcosa che apprezzo. Quindi grazie. Sui riconoscimenti globali: come ogni altro marchio, sono tanti i fattori che portano al successo. Purtroppo non è tutto legato solo alla qualità. Il segreto è riuscire a portare il tuo marchio al TOMA (Top Of the Mind Awareness – top della consapevolezza mentale), quindi tempismo, logistica, storia precedente, hype e le persone che ti rappresentano sono tutti ugualmente importanti per arrivarci. E sì, fare una birra con grandi materie prime o con qualcosa di particolare che attiri l’attenzione è sempre utile, ma normalmente è l’intero progetto che ti fa arrivare alla notorietà mondiale.

  • Come vedi cambiato il mercato della birra negli ultimi 10-15 anni?

Mi piace questa domanda: per i primi dieci anni della mia carriera ho sempre pensato nel breve periodo, mi ero abituato alla lotta per portare la birra artigianale europea al livello di ciò che è adesso. E sta funzionando.

Se vuoi guardare nella sfera di cristallo ti basta osservare l’evoluzione avvenuta negli USA negli ultimi 20 anni. Lo stesso succederà qui. Secondo me nel 2020-2025 la fetta di marcato globale della birra artigianale sarà tra il 30% ed il 50%, abbiamo un’intera nuova generazione di persone che sta crescendo con tutto ciò e che non conoscerà altro. Naturalmente si vedranno le grosse multinazionali acquistare, e persino brassare “birra artigianale”, ma chiaramente non sarà vera birra artigianale, perchè non è una questione di distribuzione, sono le persone dietro la birra ad essere importanti. Ormai la scatola è stata aperta e non c’è più modo di rientrarvi dentro. Una delle ragioni che mi hanno portato a Lervig è proprio la possibilità di poter scalare/ampliare, e poi abbiamo l’acqua più buona del mondo!

  • Ultimamente ha fatto molto discutere l’accanimento di alcune multinazionali della birra nei confronti di alcuni piccoli birrifici. Qui in Sardegna abbiamo vissuto la denuncia di Birra Moretti nei confronti del Birrificio Lara per aver chiamato “Moretta” una birra della sua gamma. Credi che il mondo industriale e quello delle “craft beers” non si ignorino più come un tempo e che stiamo cominciando a pestare i piedi a qualcuno?

Naturalmente ci stanno osservando, non è stata proprio Moretti a fare una IPA ? (secondo me si confonde con Poretti – ndt) All’inizio ci hanno sbeffeggiato, poi ci hanno ignorato, poi è arrivato anche il bullismo, e adesso vogliono essere come noi… non è ironico ?

  • Personalmente sono rimasto molto colpito dalla crescita qualitativa del mercato scandinavo negli ultimi anni. Pensi di poterti prendere almeno una parte dei meriti di questa crescita?

Posso dirti senza dubbio che ero qui e che ho brassato una buona parte di questa birra, ma prendermi i meriti no, quelli vanno divisi tra i consumatori e i più di 400 birrai artigianali scandinavi là fuori. Avendo prodotto birra con molti nomi riconosciuti (Mikkeller) posso anche dire che ci sono tanti grandi birrai qui e tante persone capaci che capiscono ciò di cui il mercato ha bisogno per crescere e crescere…

  • Il Nord Europa soffre di una tassazione pesante sugli alcolici. So che in Svezia il problema è molto grosso. Come è possibile riuscire nelle esportazioni a vendere la birra a un prezzo comunque competitivo?

Non è un problema, la tassa sull’alcool pesa solo sulla birra venduta nel nostro paese, in Norvegia è persino più alta di quella svedese: paghiamo circa €5 al litro per una birra da 5% ABV. La stessa cifra che i tedeschi pagano per ettolitro. Abbiamo qualche svantaggio qui, poichè la Norvegia non fa parte dell’EU dobbiamo importare ogni cosa e abbiamo un costo della vita molto alto che è causa di costi di produzione più elevati… ma riesco a vendere la birra in Italia e l’accisa viene pagata nel momento in cui viene importata, con l’IVA ovviamente.

  • Ho potuto notare la tua naturale predisposizione alla “collaboration brew”. Pensi che l’elaborazione di ricette condivise con altri birrai sia qualcosa che serva più a far conoscere il birrificio in altri mercati a cui non è ancora arrivato, oppure è solo voglia di condividere con i colleghi l’arte del fare birra?

La “Collaboration brew” è tutto ciò che hai detto e anche di più. Faccio birra con i birrai che apprezzo dal punto di vista umano oppure qualche volta li voglio incontrare dopo esser rimasto colpito dalle loro birre. Condividere l’impianto è il mio modo di aiutarli, così come condividere i nostri mercati, in ogni caso di solito ci si sta aiutando a vicenda. Il più delle volte è solo divertimento e una grande opportunità di incontrarsi, fare birra, mangiare qualcosa e conoscersi. E’ ciò che amo di più di questo lavoro.

  • Stando in Europa cosa ti manca di più degli U.S.A. a parte la famiglia?

Pescare con i miei amici a Cape May ogni fine settimana. E naturalmente la convenienza di vivere negli USA. Meno tasse e tempo migliore…

  • Qual è fra le birre Lervig quella a cui sei più affezionato?

Lucky Jack, quella è la birra che vorrei bere tutti i giorni. Ma la birra che ho fatto con Magic Rock (Farmhouse IPA) è da sempre la mia preferita.

  • Di recente si è parlato tanto della tua ultima collaboration brew “Big Ass Money”. Puoi anticiparci qualche altra imminente novità?

Quella ha avuto un bel po’ di risonanza. Sto pensando di farne un’altra ancora più “big ass” (letteralmente “grande culo”, ma in slang vuol dire “bello grosso”), ma sì, vogliamo fare birre grosse e attirare l’attenzione… è la mia strategia.

Grazie di cuore Mike, buon lavoro

Grazie a voi!

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