Scotch Ale: dai druidi al calice…

22 febbraio 2016  |  di Fabio Piredda

Inevitabilmente quando negli ultimi 7-8 anni si parla di Scozia, l’associazione fra quest’ultimo fazzoletto di mondo e il sostantivo “birra” innesca una equazione mentale che risponde al nome di Brewdog. Vuoi per la ormai straordinaria popolarità del forte marchio di Ellon, vuoi per la rivoluzione apportata da Martin Dickie e James Watt all’interno di un mercato britannico che fino a quel momento si contorceva su sé stesso nel tentativo di rendersi ancora vivo al  resto del mondo pur mantenendo inalterata o quasi la sua conclamata avversione al disallineamento alla tradizione. Dall’apertura di Brewdog è passata tanta birra sotto i ponti. Al punto da avere oggi un Regno Unito parecchio diverso, ancora ebbro di entità brassicole medio-grandi che occupano un buon 80-85% degli impianti spina dei pubs, ma anche pulsante di piccole  realtà che producono birre dalle caratterizzazioni forti e chiare. Realtà come “Kernel”, “Marble”, “Beavertown”, “Buxton”, “Hardknott”, “Wild Beers”, “Cromarty”, “Thornbridge”, “Moor” e tante altre, hanno portato una ventata di aria fresca sovvertendo il concetto che la birra sia (come il pane a tavola) qualcosa di imprescindibile e allo stesso tempo poco celebrato; e dando vita a una più alta collocazione del prodotto brassicolo nell’elenco delle priorità di chi è inglese e ha voglia di emozionarsi davanti a una pinta.

In un contesto di questa portata, per un piccolo progetto che vuole applicare concetti nuovi a tipologie birraie arcaiche, districarsi nel mercato è cosa complicata. Eppure non impossibile, almeno per quelli davvero bravi. In Scozia una delle realtà più interessanti sotto questo punto di vista, è quella della “Inveralmond Brewery”. Il birrificio, fondato nel 1997, sorge nella fiabesca Perth, ex capitale della Scozia, nota anche come “St. Johnstone” in onore del suo santo patrono Giovanni Battista, e conosciuta nel mondo della musica per aver dato i natali a band del calibro degli “Alestorm” e dei “Fiction Factory”. In un panorama in buona parte tutt’oggi incontaminato, ricco di verde e con una popolazione locale che non ama prendersi troppo sul serio, il mastro birraio Ken Duncan ha costruito una gamma di birre decisamente tradizionale, tanto povera di picchi di estremismo luppolato quanto “pura” nel suo lodevole tentativo di far rivivere stili finiti ormai nel dimenticatoio. Fra le sue produzioni più indovinate si distingue senz’altro la “Blackfriar”, scotch ale molto ben fatta e romanticamente legata a quel meraviglioso mondo tutto scozzese composto dalle ale invernali che una volta venivano catalogate col termine “wee heavy”.

La “Blackfriar” presenta un’etichetta colorata raffigurante un druido circondato da botti, pentolone con annesso mestolo ammostato e spighe di orzo. Nella parte alta la dicitura “from the heart of Scotland” contribuisce a rimarcare la volontà dell’azienda di trasmettere un senso di forte attaccamento territoriale in cui, prima di tutto chi è scozzese, possa ritrovarsi. Il retro etichetta recita: “Perth, the ancient capital of Scotland, was known in the Middle Ages for its three great monasteries. One of these, the Blackfriars cloister, had a famously bloody past; it was there that King James I was assassinated in 1437. Our homage to the Blackfriar moastery is this hearty Scotch Ale”. Il riferimento è allo storico fatto di sangue avvenuto nel 1437 nel monastero dei domenicani di Perth, di cui fu vittima Giacomo I di Scozia. Egli era nipote di Roberto III il quale si sposò più di una volta. Questo innescò dei dissidi all’origine dei quali vi fu chiaramente la disputa della validità del successivo diritto al trono dello stesso Giacomo I. La violenza che ne derivò determinò il suo assassinio per mano di Sir Robert Graham e un manipolo di scozzesi in una sanguinosa notte di marzo.

Al momento di versare questa birra nel calice (ho usato una mezza pinta ma un balloon parrebbe meno sacrificante) il primo impatto cromatico e la relativa formazione di schiuma suggeriscono la consapevolezza di trovarsi davanti a un prodotto di stampo invernale. Il colore è di un ambrato carico assai vicino al bruno, sormontato da una schiuma color crema particolarmente compatta, non molto copiosa ma di una persistenza davvero notevole. Al naso rotondi sentori di cioccolato intersecano velature di frutta invernale su uno sfondo etilico, con la prugna e l’amarena in bella mostra, e l’uva sultanina e la mela cotta nelle retrovie. Fra i sentori secondari il rabarbaro e la legna umida a completare un quadro olfattivo fruttato-liquoroso che ricorda quasi un barley wine. Al palato un corpo medio e una carbonatazione medio bassa, con un ingresso dolce che, forse anche per un condizionamento gastronomico puramente geografico, mi rimanda agli “shortbread”, i tipici biscotti scozzesi al burro. La frutta matura e disidratata, su tutte uvetta, dattero e ciliegia, si lascia “circondare” dai sentori etilici. In secondo piano un pungente pizzicore speziato di zenzero candito e una punta di radice di liquirizia poggiano su un caldo tappeto etilico di Grand Marnier. Il finale segna un lieve ritorno amaricante, presente anche se in modo blando anche a livello retro olfattivo, che asciuga il palato e lo rende pronto per ricevere un altro sorso…

L’idea di Ken Duncan di annoverare fra le sue etichette alcune tipicità della tradizione brassicola scozzese è encomiabile e merita rispetto sebbene in questa fase suoni un tantino antistorica. Va anche detto che questo stile in particolare, che in passato prevedeva spesso l’utilizzo di bacche di mirto in fase di bollitura, è stato nel corso degli anni un pò “violentato” da alcuni birrifici contemporanei che ne hanno sfigurato i tratti somatici a favore dell’effetto determinato dalla dichiarazione dello stile in etichetta. Quella prodotta da Inveralmond è una Scotch Ale vera, la cui cornice maltata a base di “Pale”, “Crystal”, “Chocolate” e “Wheat”, sposa una presenza luppolata decisamente britannica in cui il “Cascade” (in aggiunta a “Pilgrim” e “Fuggle”) risulta essere l’unica licenza in una ricetta straordinariamente rispettosa della tradizione. Non posso far altro che consigliare come abbinamento a una birra “così tanto britannica” qualcosa di altrettanto britannico. In particolare uno dei tipici “blue cheese” (formaggi erborinati) d’oltremanica (Cashel Blue, Stilton, Shropshire Blue) arricchito da un chutney di fichi e pepe; o in alternativa un ricco pudding. Del resto chi se ne frega se il Natale è passato???

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