BELLI, ECCITANTI E SFACCIATAMENTE DERIVATIVI: I NUOVI LUX E IL MOSCOW MULE

27 gennaio 2015  |  di Antonio Canu

Me ne stavo bello tranquillo, in piena botta nostalgica leccandomi le ferite dovute al rientro da un recente viaggio, a farmi cullare da un triplo cd che raccoglie le migliori canzoni messicane dei primi decenni del secolo scorso, ancora nel naso ed in bocca aromi e sapore intenso ma raffinatissimo della Tequila reposado artigianale che Don Fernando offre solo ai veri appassionati a Mahahual, estremo sud del Quintana Roo davanti al mare del Caribe, quando mi arriva l’advanced press tape del nuovo cd dei Lux.
Un forte calcio in culo di puntazza dato con gli anfibi che mi riporta alla realtà.

Nel marzo del 2011 parlammo qui su Taribari del loro esordio sulla lunga distanza intitolato “13”, spiritato disco di folk punk solo voce-chitarra acustica-cajon che evocava i primi Violent Femmes e la più deviante ed irregolare canzone d’autore italiana del passato remoto e recente. Il seguito, “Menomale” del 2012, uscì per la Seahorse di Paolo Messere che produsse, forse troppo, il disco il cui suono si arricchiva della presenza del contrabbasso, di tocchi di synth e di chitarre che si facevano più elettriche.

Tra qualche giorno uscirà finalmente il terzo lavoro dei Lux con una formazione completamente rinnovata. A fianco al fondatore e anima creativa della band Luca Usai (voce, chitarre e synt) ci sono ora Marco Pintus al basso e Alessandro Puledda alla batteria. Il disco, autoprodotto, si intitola “Elohim vol. 1” ed è la prima “puntata” di due strettamente interconnesse. Il secondo volume uscirà prima dell’estate.

Il suono della band, seppure ancora in qualche modo riconoscibile e caratterizzato dalla inconfondibile voce di Luca, è totalmente diverso da quello semi acustico del passato.
La nuova faccia di Lux è infatti quella di un furioso power trio marcatamente rock che ha le radici ben piantate nell’ hard venato di psichedelia dei tardi anni ’60 e degli  anni ’70 e guarda spudoratamente al suono post grunge e post stoner e a certo metal evoluto degli anni ’90. E alla sintesi dei tre incarnata negli anni zero dai QOTSA.
Sette canzoni, sette assalti all’arma bianca quasi tutti intervallati, più o meno nel mezzo di ogni brano, da break melodici  italoprog e da armonie psichedeliche tipiche del miglior rock italiano degli anni ’70.

Si parte con l’assalto nirvaniano di “Unica” che scopre subito le carte e dice chiaramente cosa ci aspetta. Il rifferama, la ritmica ed i suoni nu-metal di “Consapevole” e di “Il Tuo Re”, quest’ultima con un solo di chitarra dal suono vintage che dice di una cura nell’arrangiamento tutt’altro che improvvisata, ci preparano ai due brani centrali e stilisticamente esemplari e rappresentativi dei nuovi Lux. Il primo, “Dimmi Come Fai”, claustrofobico, plumbeo, lento e pesante, evoca i devastanti tardi Black Flag; compreso il cantato declamatorio, confrontazionale e “in your face” fino alla consueta apertura melodica che sa di Battisti con i Tool come backing band. E un testo che è risposta sprezzantemente freakettona a chi usa la bocca come il culo per far uscire merda. Il secondo brano-manifesto, gli oltre otto minuti space rock di “Nuovo Diluvio”, è una tanto improbabile quanto riuscita jam tra Claudio Rocchi, i Black Sabbath e qualche gruppo alt-rock italiano dei tardi ’90 o dei primi anni zero. Il finale di “In Me” dichiara esplicitamente chi vuole essere oggi Lux: un impeto hard di desert robot rock che manco fossimo al Rancho de la Luna con Josh Homme al banco di mixaggio e alla chitarra solista, condito da un break italopop che non dovrebbe starci per un cazzo e che invece suona perfetto e imprescindibile.

Insomma un disco bellissimo, eccitante e sfacciatamente derivativo. Derivativo come quasi tutto il rock (e non solo) che ci capita da ascoltare da molti anni a questa parte. Ma, come dice il più acuto, sottile ed originale dei critici musicali dei nostri tempi, Stefano Isidoro Bianchi, “ il rock, tutto, guarda indietro e si stropiccia gli occhi; i migliori, alla fine, sono quelli che non fingono di non farlo e puntano dritto, con sguardo che trabocca fascino, alla bocca dell’abisso”. I migliori, insomma, sono quelli come Lux.

In abbinamento un “Buck’s cocktail” nato nel 1941 che ha conosciuto negli anni ’50 il suo massimo successo. Oggi torna alla ribalta grazie all’uso degli ingredienti base di allora ma caratterizzati da nuove produzioni di altissima qualità: il Moscow Mule. La versione che perfettamente si sposa con i nuovi Lux è quella preparata con la inarrivabile “Ginger Beer” della Fever Tree (meravigliosa anche bevuta da sola), la noble russian vodka Beluga e un centilitro di succo di lime. Il tutto miscelato direttamente in un tumbler alto riempito generosamente di ghiaccio e guarnito da una fettina di cetriolo e una di lime. Grandi sorsi, ansiosi di un secondo giro, mentre il cd dei Lux suona ad altissimo volume, convinti – noi con loro – che “ nessuno ti può ferie, nessuno può farti del male, nessuno ti può guarire, se non sei disponibile”. E noi l’unica disponibilità che abbiamo di questi tempi è – regalati i porci e le perle – quella di bere, sghignazzare e ascoltare rock’n’roll mandando gli stronzi affanculo. Amen.

6 Commenti a “BELLI, ECCITANTI E SFACCIATAMENTE DERIVATIVI: I NUOVI LUX E IL MOSCOW MULE”

  1. psichedelie anni 70 scrive:

    ma smettiamolaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa ve ne prego!

  2. termini scrive:

    e tandu???????

  3. Be oz scrive:

    Ma quindi la “GINGER BEER” dev’essere un be buona…

  4. antonio scrive:

    Non ho mai letto tante cazzate messe assieme come in questa pseudorecensione

  5. antonio canu scrive:

    Ho ovviamente approvato il commento perché è giusto che ognuno abbia ed esprima le sue idee. Ciò riguardo alle presunte cazzate da me scritte nell’articolo. Ciò che mi sfugge è il senso del “pseudo” prima di “recensione”. Perché pseudo, mio anonimo (io fiormo gli articoli, sarebbe carino firmare i commenti) censore?

  6. piero scrive:

    cafoncello e coniglio l’amico fritz!

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