La nuova Olanda di De Molen

15 dicembre 2014  |  di Fabio Piredda

Nella variegata geografia del mondo della birra che conta, uno dei paesi più bistrattati del circuito brassicolo è senza dubbio l’Olanda. Intendiamoci, non senza un certo merito. Le critiche piovono da ogni parte e vanno a toccare non solo la crescita birraia sempre col freno a mano tirato, ma anche e soprattutto la praticamente inesistente identità produttiva e stilistica. E’ come se questo paese avesse vissuto la vicinanza con paesi come Belgio e Germania come un limite piuttosto che come una risorsa. Questa “non-evoluzione” è dovuta soprattutto al fatto che l’Olanda nel mondo della birra è un po’ la terra di nessuno e vive quotidianamente l’onta dei paragoni fra essa e i fortissimi paesi vicini, storicamente precursori nel campo dell’arte brassicola. Immaginate l’Olanda sul mappamondo. Confina a sud col grande Belgio dei monasteri, delle biére blanche e delle produzioni di fattoria; a est con l’immensa Germania, e a nord e a ovest con l’acqua salata. Inoltre è assai nota nel mondo per le sue multinazionali (Heineken e Bavaria) che hanno contribuito non poco all’appiattimento dell’offerta della grande distribuzione. Insomma, un quadro non esattamente idilliaco. A questo si aggiunge la critica degli appassionati. Tanto per restare in casa nostra, ho ancora un vivido ricordo di un pranzo qui a Sassari in cui il grande Lorenzo Dabove (Kuaska) si lasciò scappare un “a cosa serve l’Olanda? A niente, solo ad arrivare in Belgio”… Eppure anche in un desolato panorama birraio come quello olandese esistono picchi di genialità, voglia di fare e competenze nel settore del marketing. Menno Olivier, titolare e birraio della De Molen  di Bodegraven, è uno di quei personaggi che poco hanno a che fare con il vuoto brassicolo appena descritta. Ha aperto il suo birrificio nel 2004, con un impianto da 500 litri che fin dal principio si è divertito a sfruttare al massimo producendo birre sempre nuove in una infinita serie di cotte uniche avviate spesso secondo l’ispirazione del momento. Dare una inquadratura stilistica a De Molen è stupido e riduttivo, come voler costringere un purosangue in una angusta recinzione. Il mondo della birra è ricco di stili e tipologie, e il fatto che l’Olanda di fatto non ne abbia creato dal nulla nemmeno uno non genera alcun imbarazzo nella voglia di Menno di esplorare in lungo e in largo tutto lo spettro produttivo, usando l’impianto come un pittore utilizzerebbe la tavolozza dei colori. Nel tempo il birrificio si è ingrandito non poco, tanto che oggi produce circa 6000 ettolitri l’anno. Contare sui principali motori di ricerca mondiali (ratebeer, beer advocate, ecc.) le birre prodotte in passato e nel presente da questo birraio è cosa tutt’altro che semplice, visto che ogni tanto alla lista se ne aggiunge una nuova e non gli si sta dietro; oggi una pils asciutta e rinfrescante e domani magari l’imperial stout più estrema di tutta Europa…

De Molen “Heen & Weer”

In olandese “Heen & Weer”. In inglese “Back & Forth”. In italiano “Indietro e Avanti”. Un nome che lascia intuire quale sia l’intento di “modernizzazione tradizionale” di uno storico stile come la tripel belga. L’etichetta, come tutte quelle di De Molen è di una semplicità talmente estrema da risultare di grande fascino. Bianca con scritte nere per le quali è stato selezionato un font classico e  leggermente spigoloso. Le cose interessanti sono fondamentalmente due: la data di imbottigliamento in aggiunta a quella della scadenza burocratica (a 5 anni dalla data di imbottigliamento), e la massima disponibilità all’esposizione in chiaro degli ingredienti utilizzati, fra i quali spiccano i luppoli cechi (“premiant” e “saaz”) abbinati a malto (anch’esso ceco) “pils”, e “cara”; con aggiunta di coriandolo. Per versare questa birra ho scelto un balloon visto che il birrificio non offre alcuna informazione circa lo stile birraio di riferimento e il motore di ricerca “Ratebeer” la cataloga come “tripel”; ma appena comincio a versarci dentro la birra me ne pento immediatamente, rendendomi subito conto, da colore assai carico e primi sentori olfattivi, che qui c’è bisogno di un bel calice ampio. Dopo aver provveduto alla sostituzione del bicchiere la birra comincia a raccontare di sé. Torniamo al colore… Un ambrato carico “rubino”, decisamente più scuro rispetto al colore giallo luminoso tipico delle birre di questo stile. La schiuma è infinita e per nulla intenta ad abbassarsi di livello, beige, pannosa e di grande aderenza. Il naso è dolce, fruttato e liquoroso, di sherry, amarene sotto spirito, uva sultanina e mosto cotto; con una cosa speziata in cui il coriandolo si sente forte e chiaro. Direi che questa birra tutto è, meno che una tripel. In bocca avverto tutta l’aggressività della carbonatazione figlia della rifermentazione in bottiglia. E poi le prime conferme. L’ingresso dolce e fruttato, di amarena e zucchero bruno caramellato; sentori speziati non solo di coriandolo ma anche di chiodi di garofano. Nel finale si percepisce la vena amarognola innescata dal “saaz”, ricorda moltissimo le mandorle amare e la noce. Il tutto in un contesto liquoroso di evidente carattere invernale. Non penso sia mai necessario fossilizzarsi sulla catalogazione delle birre a tutti i costi, e quello della “Heen & Weer” è il classico caso in cui questa maniacale ricerca del “2+2” è resa ancor più insensata dal piacere che questa idea di Menno Olivier lascia nel palato e nella memoria di chi la beve. Una birra invernale di quelle che nutrono lo spirito e scaldano il cuore. Grande al punto da farmi dimenticare quanto l’Olanda sia povera nel suo spessore birraio e al punto da indurmi a considerarla nella sua interezza, saltando alla ovvia conclusione che se fra i meriti di cui un paese può fregiarsi, c’è addirittura quello di aver avuto la meglio sul mare, qualche motivo dovrà pur esserci.

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