DOLCE NATURALE: SAMBA, CARTOLA E IL BARROSU DI MONTISCI.

11 dicembre 2014  |  di Antonio Canu

Cartola, il Divino Cartola, nato Angenor de Oliveira a Rio de Janeiro nell’ottobre del 1908, seppure da molti considerato il più grande sambista della storia della musica brasiliana, incise il suo primo disco solo nel 1974 a 66 anni. È più vecchio di come direbbero i suoi anni quando, dopo decenni di composizioni di samba che hanno fatto la storia, fissa su disco alcune delle sue canzoni. Vecchio come può esserlo a 66 anni un uomo del primo ‘900 che ha vissuto in Brasile, prevalentemente nelle favelas,  facendo lavori duri ed umilissimi alternati alla vita del musicista, eccessi alcolici e fisici compresi, e a periodi nella prima giovinezza legati alla piccola criminalità.

La sua voce, in quel primo disco e nel suo secondo – omonimo come la prima incisione e suo vero capolavoro discografico – ha i segni profondi della vita, ha il suono delle rughe scurite dal sole che segnano la sua faccia, ha la sua magrezza e e la dolce malinconia dei suoi occhi a cui mai manca però il suo sorriso da malandragem.

Passa la prima infanzia tra i quartieri carioca di Catete e Laranjeiras e impara dal padre a suonare chitarra e cavaquinho. A seguito di problemi economici della famiglia si trasferisce poi nella nascente favela sul morro da Mangueira. È lì che nasce la leggenda: prima il nomignolo con cui si fece eterno, Cartola, nato da un intraducibile gioco di parole dei suoi colleghi di lavoro legato al fatto che, quando lavorava come manovale nei cantieri edili, per proteggere i capelli da cemento e calcinacci indossava un capello a bombetta trovato chissà come e chissà dove; poi la fondazione nel 1928 insieme a sette amici musicisti e compagni di baldoria della prima scuola di samba di Rio, la Estação Primeira da Mangueira, della quale diviene direttore di armonia e principale compositore dei samba de enredo con i quali vince numerose gare e premi. Lì conosce e ospita grandi musicisti come Noel Rosa del quale diventa amico e Francisco Alves e Mario Reis per i quali compone e ai quali vende alcuni suoi brani. La fama cresce, suona sempre anche alla radio, Carmen Miranda canta i suoi samba e persino il colto compositore Heitor Villa-Lobos, suo ammiratore, lo chiama a formare e dirigere un gruppo di sambisti, tra i quali le leggende Pixinguinha e João da Baiana.

Poi il declino e la apparente scomparsa: muore la sua compagna, entra in rotta con la nuova direzione della Estação Primeira da Mangueira, va via dalla favela, si ammala di meningite e sparisce nel nulla.

Per 15 anni viene dato per morto anche da conoscenti e ammiratori. Nel 1957 viene riconosciuto da un giornalista mentre lavora in autolavaggio di Ipanema. L’articolo sul suo ritrovamento che ne segue rilancia la sua carriera che riparte anche grazie alla sua nuova compagna, Dona Zica, con la quale avvia un ristorante nel centro di Rio, il Zicartola, che diventa ritrovo di musicisti di tutte le generazioni e luogo di incontro tra i vecchi sambisti e i nuovi musicisti e compositori della nascente Bossa Nova. Quando il ristorante chiude lui è ormai una leggenda vivente, partecipa ad incisioni collettive, è maestro di cerimonie di una serie di manifestazioni e concerti che si tengono nel 1970 nella spiaggia di Flamenco, compone per molti nuovi musicisti, sambisti e non: Elizeth Cardoso, Nara Leao, Paulinho da Viola, Clara Nunes e molti altri.
E finalmente nel 1974 il primo disco solo già meraviglioso e a seguire il suo capolavoro di sempre inciso nel 1976. “Minha”, “Aconteceu”, “Não Posso Viver Sem Ela” sono samba perfetti sentendo i quali non si può star fermi. La conferma in musica dei famosi versi: quem não gosta de samba bom sujeito não é, é ruinda cabeça ou doente do pé (chi non ama il samba buon soggetto non è, o ha la testa rovinata o gli fanno male i piedi).

Ma non è lì, nei samba classici e veloci, che sta l’essenza di Cartola, ciò che lo rende “il Divino”. La magia è nei suoi samba rallentati, trattenuti, fluttuanti. Sublimati melodici e sentimentali dello stato solido del ritmo. Samba da fiato sospeso, da fermo immagine della memoria, da sensazione di malinconia per ciò che non si è fatto e visto e si sarebbe dovuto fare e vedere mista a gioia e paura da farfalle in pancia per la passione. Samba da sogno di invecchiare in una casa di legno davanti al mare guardando, sbronzo, l’orizzonte abbracciato a chi ami.

Samba come “A Rosas Não Falam” e “Preciso Me Encontrar”: non avesse composto o cantato e inciso che questi due brani già meriterebbe un posto nella storia della musica popolare di qualsiasi luogo e di qualsiasi tempo. Posto che Cartola ha conquistato con la sua musica e la sua vita da novela.

Quando muore di cancro il 30 novembre del 1980 a 72 anni il suo corpo esposto  nella sede della “scuola di samba delle scuole di samba”, la sua Estação Primeira da Magueira, viene omaggiato da tutti i grandi musicisti brasiliani viventi e soprattutto dalla gente della favela. Il primo dicembre durante il funerale Waldemiro, il percussionista principe della scuola di samba che proprio con Cartola aveva imparato a suonare, inizia a segnare il ritmo per tutti inconfondibile e dalla piccola moltitudine di sambisti, amici, politici, musicisti e bevitori di cachaça che accompagna la bara sale il canto di “As Rosas Não Falam”. Il feretro coperto dalla bandiera della squadra del cuore della quale fin da piccolo si era fatto torcedor, la Fluminense, lascia il mondo ed entra nel mito al ritmo lento e profondo del suo brano più intenso.

L’abbinamento ideale con i samba barcollanti, malinconici, lenti e sinuosi di Cartola sarebbe quello  che segue la regola che i sommelier chiamano “abbinamento per tradizione”: cachaça di qualità scadente, liscia e a temperatura ambiente, fino allo stordimento. Non volendo cavarcela così facilmente preferiamo la regola dell’abbinamento “per similitudine e affinità” che si applica solitamente quando si abbinano vino e dolci. Perché non v’è dubbio che di dolci si tratti quando ci si nutre con voluttà l’anima con i brani di Cartola. Dolci caserecci e rustici talvolta, ma non per questo privi di sublime raffinatezza, mai stucchevoli nella loro dolcezza sempre bilanciata da un tocco di amargura. Perciò ho scelto il Barrosu Dolce di Giovanni Montisci da uve moscato appassite sulla pianta a Mamoiada, lavorate nello stile naturale dichiarato dal produttore: niente chimica, solo lieviti autoctoni, evitare la solforosa, niente filtrazioni né stabilizzazioni. Il risultato è impressionante già nel naso dove il dolce di miele e fiori gialli  è bilanciato dai sentori di frutta secca ed esplode in bocca: la trama vellutata del dolce è intrecciata con fili ruvidi di sapidità che spingono, mai sazi, a desiderare di berlo senza fine.

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