Dal Convegno di Nulvi

19 marzo 2016  |  di Piero Careddu

PUBBLICO INTEGRALMENTE IL MIO INTERVENTO AL CONVEGNO DI NULVI  ” GUSTI  (BIO)DIVERSI”  DEL 18  Aprile 2016.

SALUBRITA’ E CONOSCENZA DELLA MATERIA PRIMA. CUOCHI E SOMMELIERS COME SENTINELLE DEL TERRITORIO.

Non so quanto sia casuale il fatto che il mio è l’ultimo intervento di questo convegno, ma sicuramente si tratta della collocazione più adeguata poiché io, nella doppia veste di cuoco e di sommelier, rappresento il punto finale del circuito produttivo agroalimentare prima di chi consuma. Siamo infatti noi coloro che trasformano in elaborazione gastronomica il lavoro di contadini, allevatori, casari, pescatori e SIAMO anche coloro che aprono la bottiglia di vino dopo averla scelta e proposta al consumatore finale.Una grossa responsabilità come potete ben intuire ed immaginare. Una responsabilità talmente grande che ritengo, ma siamo ormai in tanti a pensarla così, che i tempi siano maturi per riflessioni approfondite su quanto questo settore sia fermo dal punto di vista di una vera e propria crescita etica, riguardo alle implicazioni che porta con se su salute, rispetto dell’ambiente, distruzione del pianeta. Quando cerco di affrontare queste questioni, nelle più disparate situazioni, alla presenza di tecnici del settore, siano essi ristoratori, cuochi, sommelier, vignaioli,  barman o gli stessi giornalisti di settore, vengo spesso guardato come un visionario invasato e la domanda più frequente è: ma cosa c’entriamo noi con questi argomenti così importanti, con queste tematiche mondiali più grandi di noi.  Come se il mondo non fosse abitato da tutti gli esseri umani e che tutti gli esseri umani, senza distinzione di razza, sesso, colore, condizione economica non fossero coinvolti nella devastazione ambientale e nelle sue conseguenze soprattutto per le generazioni future. E così si continua a navigare a vista inseguendo un mercato che detta i tempi e i modi e sono tempi e modi immolati sull’altare del business e del denaro. E’ anche vero che qualcosa sta cambiando e che le sensibilità attente a queste tematiche si moltiplicano giorno dopo giorno. Non è un caso che stasera io e i miei illustri compagni di tavolo siamo qua e che voi stessi avete trovato il modo di ritagliare, all’ora di cena, una porzione del vostro tempo per dedicarla a questa iniziativa. Qualcosa si muove nell’agricoltura, qualcosa succede nel mondo della viticoltura e dell’enologia. Gli ostacoli sono tanti, la scarsa informazione pilotata e l’atteggiamento da struzzo sono i freni maggiori ma rispetto a dieci anni fa se non altro si parla di certe cose che fino ad allora erano ancora tabù. Diciamo che in uno scenario alimentare fatto di rovine postbelliche è sempre più facile trovare dei fiori che nascono e sbocciano in mezzo al disastro.  Non vi snocciolerò statistiche e numeri su quella che è la condizione mondiale ma non è possibile procedere nel ragionamento se non si parte dal punto fisso che il settore dell’alimentazione è, ad ogni livello, regolamentato da leggi criminali che consentono di far circolare per il pianeta prodotti velenosi a loro volta allevati, coltivati o elaborati in maniera altrettanto criminale. Credo sappiate tutti che, grazie a normative comunitarie folli, è possibile importare prodotti alimentari da parti del mondo, le cui filiere sono prive di controlli, ed etichettarle come prodotto locale. Se dovessimo prendere come esempio la nostra terra sarebbe necessario un altro convegno solo per stendere la lista di prodotti sardi che di sardo hanno, quando va bene, il solo confezionamento nel nostro suolo.  L’avvento degli agriturismo negli anni 80, sembrava dovesse pilotare una rinascita di qualità e di attenzione sul cibo sano e autoprodotto ma poi la crisi economica, prima strisciante poi esplosiva, e l’assenza di controlli su normative per giunta già molto elastiche, ci ha posto di fronte ad un oceano di strutture agrituristiche la maggior parte delle quali costruiva la propria offerta sulla spesa fatta al cash&carry. Per non parlare poi della recente trovata del CHILOMETRO ZERO. Il chilometro zero sarebbe, se preso dal punto di vista squisitamente teorico, un’idea geniale. Io, privato od operatore commerciale, faccio la mia spesa di frutta, verdura, carni, pesci e quant’altro solo ed esclusivamente da produttori locali del mio più ristretto territorio. Quale intenzione più encomiabile di quella di promuovere l’economia locale, producendo benessere e posti di lavoro ma, soprattutto, proteggendo la salute pubblica dai prodotti dell’agricoltura intensiva che la globalizzazione e la grande distribuzione ci impongono?  Grande idea se, come sempre succede alle grandi idee all’italiana, non mancasse alla base la certezza che il prodotto del mio vicino è realmente sano e artigianale. Perché vedete, cari amici, uno dei tanti grandi miti che, se pur a malincuore, dobbiamo sfatare è quello del piccolo contadino o allevatore che coltiva i suoi pomodori, sedani, mele, agnelli eccetera senza utilizzare un solo grammo di prodotti chimici. Leviamoci dalla testa che l’utilizzo della chimica di sintesi sia solo appannaggio delle grandi industrie agroalimentari e prendiamo in seria considerazione che moltissimi piccoli produttori della terra scelgono la scorciatoia dei trattamenti spesso massicci.  Il mio discorso non vuole ovviamente generalizzare: ci sono certamente centinaia di persone serie nel mondo delle piccole produzioni ma non facciamoci illusioni sulla poesia che finora hanno cercato di propinarci. Ecco perché a tutt’oggi il discorso del chilometro zero lascia il tempo che trova a causa della cattiva educazione ambientale di molti, troppi contadini e allevatori e della praticamente assente presenza di organismi di controllo sul territorio. EDUCAZIONE AMBIENTALE ecco un altro punto scottante, forse la madre di ogni problema.  Perché ancora oggi, in un’era in cui l’informazione e anche la controinformazione sono quasi alla portata di tutti, la gente continua a riversarsi in massa nei fast-food e continua a cucinare a casa con prodotti semilavorati o pronti acquistati al supermercato? Perché, persino l’anziana mamma o nonna di un qualsiasi paese del nostro interno, prepara la seada per il figlio che rientra per le feste, utilizzando la farina del grande marchio industriale e la peretta del caseificio da milioni di quintali e il miele della grande fabbrica? Quella vecchietta è, nella sua totale buona fede, convinta di mantenere vive le proprie tradizioni e la propria identità senza rendersi conto che quella seada è stata svuotata di quei due ingredienti fondamentali che sono il cuore e l’anima. In tutto questo, credo che la televisione abbia dato e continui a dare il proprio nefasto contributo. Quante di quelle persone che frequentano il fast-food, quanti di quei genitori che consentono ai propri figli di alimentarsi con cibi grassi, sintetici e salati sono consapevoli che acquistando quei prodotti si stanno rendendo complici e stanno promuovendo grandi aziende multinazionali che inquinano, avvelenano aria e terra e stanno attuando una sorta di genocidio alimentare autorizzato? Poche, forse nessuna ha questo tipo di coscienza. Questo perché il lavoro fatto negli anni dai media, da una politica complice e asservita e da un sistema scolastico completamente assente da questo punto di vista, ha perfettamente centrato l’obbiettivo di impedire alla gente di pensare e realizzare che, oggi come oggi ,quello delle politiche ambientali e alimentari è il tema principe che va oltre qualsiasi implicazione ideologica. Stiamo parlando del futuro delle prossime tre generazioni che al momento, se non ci diamo tutti una mossa, sembrerebbe tutt’altro che roseo.

Stesso discorso, praticamente speculare, è quello di quell’altro grande alimento della cultura gastronomica occidentale che è il VINO. Perché sul fatto che il vino sia un alimento, immagino siamo tutti d’accordo.  Cosa c’era fino a sessanta/settanta anni fa più potente dal punto di vista narrativo ed evocatorio di una bottiglia di vino?  Un pezzo di territorio capace di viaggiare, girare, fermarsi per un tempo più o meno lungo e raccontare la storia e le storie di uomini e donne che abitavano la terra dove quel vino era stato dato alla luce. Neanche il cibo aveva questa capacità così elastica di girare il mondo e portare messaggi. Anche in questo caso l’avvento dell’agricoltura intensiva è stato portatore di distruzione di tipicità e cultura. Per capire cosa è successo bisognerebbe risalire alle grandi rimanenze di materiali bellici rimaste nei magazzini all’indomani dell’ultima guerra mondiale e dei vari conflitti che hanno visto protagoniste le cosiddette grandi potenze.  Tutti questi residui non potevano essere buttati e infatti qualcuno è riuscito a scoprire che trattati in un certo modo potevano diventare ottimi fertilizzanti capaci di decuplicare le rese di tutte le colture in ogni parte del mondo. E così nacquero i  trattamenti di sintesi nell’agricoltura. Praticamente, grande paradosso,  degli strumenti di morte venivano riconvertiti per creare nutrimento all’essere umano. Per capire quali sono gli effetti della chimica in agricoltura, e di conseguenza sugli allevamenti di animali da macello e/o da latte, occorre soffermarsi rapidamente sul comportamento della pianta e delle sue radici. Prima di questo delirio di agricoltura intensiva, se volessimo utilizzare come esempio la vite su tutte, questa pianta era dotata di un apparato di radici primarie, forti e robuste, che avevano soprattutto il compito di bloccare la pianta al terreno. Conseguenti alle radici principali c’erano le radici secondarie che scavavano sotto il suolo alla ricerca del nutrimento che offriva quel dato tipo di terreno. Le radici erano aiutate in questo lavoro di scavo e di ricerca di nutrimento, retto dalla giurisdizione del sole,  da tutto una galassia sotterranea composta da microorganismi che lavoravano in sinergia con la pianta aiutandola.  Sto parlando dell ‘Humus. Grazie all’avvento dei concimi chimici, che sono prevalentemente sali disciolti in quantità d’acqua, la vite vede stravolti i propri ritmi vitali e di alimentazione. Il nutrimento chimico non fa sentire alla pianta la necessità di scavare in profondità e le radici secondarie nel tempo spariscono e insieme a loro quel microcosmo prezioso chiamato Humus. Chiedetevi e rispondetevi da soli sul come un vino prodotto da una pianta che non va più a cercare da mangiare in profondità, perché ha già tutto pronto e preconfezionato, può essere definito un vino a denominazione di origine? Come può quel vino essere interprete di quel tale territorio?  Se volete posso aggiungere che l’enorme sete, che l’alimentazione da Sali procura alle piante, costringe ad irrigazioni forzate alla faccia dell’emergenza idrica! E che l’eccesso d’acqua indebolisce la pianta sottoponendola al rischio di infezioni fungine che costringono il viticultore all’utilizzo di antibiotici e antiparassitari. E tutta questa meraviglia di veleni finisce nella terra e lentamente nelle falde acquifere. E potrei continuare ma poi mi dicono che faccio terrorismo a buon mercato. Oggi il gusto del vino è stabilito da un mercato che ne ha brevettato canoni e omologazione.  Si tende a produrre vini perfetti, dalla trasparenza impeccabile,  con quei profumi fruttati esotici se son bianchi e con concentrazioni di colore e struttura se sono rossi. L’omologazione snatura la tipicità grazie a delle lavorazioni esasperate in cantina e spesso grazie ad un utilizzo scriteriato dei lieviti selezionati che, forse molti di voi lo sanno, sono utilizzati anche  per pilotare in un certo modo aromi e profumi. C’è da chiedersi perché se, per esempio, un vermentino di Gallura ha nel suo DNA dei riconoscimenti olfattivi quasi sempre riconducibili alla mela gialla matura e alla ginestra, perché si deve artificialmente caricare di profumi di banana, ananas, mango e quant’altro. Oppure perché se, da quando mondo e mondo, il Cannonau è un vino con pochi coloranti rossi e pochissimi tannini oggi siamo costretti a bere dei Cannonau concentratissimi e pieni di astringenze innaturali. Vere e proprie scopiazzature di vini toscani che vanno tanto di moda.  Questo è all’incirca lo stato attuale del cibo e del vino nell’occidente civilizzato.  Nel titolo di questo mio intervento parlo di Cuochi e Sommeliers come sentinelle del territorio. La grande massa di operatori dell’enogastronomia, che non sono solo sommelier e cuochi ma anche ristoratori e giornalisti, devono assolutamente cambiare approccio ai problemi e assumersi le loro responsabilità,  dicendo in maniera chiara e inequivocabile se sono pronti a partecipare alla rinascita o essere complici della morte di tutto. La comunicazione del cibo e del vino non può fermarsi alla sola descrizione di un prodotto ma occorre avere il coraggio di smascherare tutti quei produttori, a volte anche griffati e costosi, che ricorrono alle scorciatoie e ai giochi di prestigio. Da questo punto di vista io sono molto critico con le associazioni di settore e i maitre a penser del vino e del cibo. Non si vede da nessuna parte la volontà di sganciarsi da certe logiche modaiole: si continua a mistificare sul concetto di tipicità e tradizione, quando invece i compiti di tutti gli operatori di questo settore dovrebbero essere: studiare prima di ogni altra cosa, leggere la realtà con la propria testa e la propria coscienza, lasciare da parte gli accademismi e riattualizzare le tecniche di assaggio e di valutazione oramai più che obsolete. E’ possibile tornare ad una totale naturalità? E’ possibile riconvertire le colture e consentire alla gente di mangiare e bere prodotti veri e non forzature malate?  La Sardegna, terra vittima della sua stessa bellezza, passa per una regione ancora non troppo a rischio dal punto di vista dell’inquinamento. Noi sappiamo bene che non c’è niente di più falso. Sappiamo che soprattutto in alcune zone dove sono attive, o lo sono state, grandi industrie chimiche e in altre ad alta concentrazione di basi militari, le malattie oncologiche e neurologiche fanno vere e proprie stragi.  Se però vogliamo, e ce lo dobbiamo imporre, buttare uno sguardo di positività e ottimismo non possiamo non dirci che siamo ancora in tempo a salvarci. La Sardegna, grazie alla bassa densità di popolazione, e grazie ai suoi immensi spazi verdi liberi dal cemento può ancora cercare e trovare il riscatto ambientale. E’ ovvio che andrebbero allentati i lacci e lacciuoli che le politiche coloniali ci impongono e iniziare a ragionare verso un’ottica di autonomia vera. Con la capacità da parte del popolo sardo di autodeterminarsi e trasformare la propria terra in una enorme boutique galleggiante, al centro del mediterraneo, per offrire al resto del mondo solo eccellenze agroalimentari, salute e un’idea totalmente nuova di turismo.  Un sogno? Può darsi… ma questo dipende solo da noi.

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